L’essere genitori esprime le sue funzioni attraverso tre direzioni principali.
E’ in primo luogo elemento di continuità, di trasmissione dei contenuti culturali, antropologici e sociali, insomma ha a che vedere con la costruzione di uno spazio in cui si impara come si sta il mondo e quali sono le sue regole socialmente condivise.
Ma è anche apparato di trasformazione e quindi di discontinuità: ogni famiglia produce nel contempo modi nuovi e diversi di relazionarsi con gli altri, apportando elementi inediti rispetto alle generazioni precedenti.
La genitorialità è, infine, il contesto in cui si forma la mente umana.
Immerso in questi elementi di continuità e discontinuità il piccolo dell’uomo struttura la sua individualità e il suo modo di dare significato al mondo . Egli una volta cresciuto “passerà il testimone”: potrà ricreare quel tessuto di continuità e discontinuità in altri contesti e con altre relazioni.
Questo passaggio del testimone è quindi il fulcro del famigliare, il ruolo più profondo ed emergente.
Tale meccanismo diventa però più complesso quando il figlio possiede una disabilità che rende più difficoltosa la crescita e l’acquisizione di una propria individualità nel mondo. Possono permanere, infatti, aree, aspetti, settori di vita in cui il figlio necessiti ancora di essere seguito. In questi casi le emozioni che accompagnano un genitore che vede il figlio crearsi una sua vita autonoma includono anche una domanda: «cosa farà nostro figlio quando non ci saremo più?»
I vissuti che attraversano una famiglia che affronta questi temi sono forti e complessi oltre che declinati in modo diverso in ciascuna famiglia. Un aspetto su cui mi è capitato di confrontarmi riguarda proprio il modo i cui questo futuro tanto temuto viene rappresentato.
Esso ha talvolta i connotati dell’assistenzialismo: «dopo di noi qualcuno si occuperà di lui, lo assisterà e gli farà da genitore». Questo qualcuno spesso è il familiare più prossimo che assolverà le funzioni genitoriali al posto dei genitori originari, oppure una struttura residenziale fornita dai servizi. In queste fantasie emozionate manca talvolta quel passaggio del testimone di cui sopra parlavo, quella trasmissione di contenuti affettivi e culturali che rappresentano l’essenza stessa della famiglia. In altre parole può venire a mancare un pensiero su quello che si può dare al figlio per renderlo più autonomo e facilitare il passaggio ad una vita adulta o comunque meno mediata dai genitori. Un passaggio del testimone, quindi, che pone l’accento su aspetti concreti relativi alla gestione dell’ambiente domestico, dei propri spazi, degli spostamenti nella propria città.
Un cordone ombelicale che non si scioglie mai e che vede con difficoltà la prospettiva quantomeno di un suo allungamento.
Ecco che l’espressione Dopo di Noi (espressione comunemente accompagnata alle politiche messe in atto per aiutare una persona con disabilità e la sua famiglia) viene interpretata in maniera letterale: «cosa fare quando noi non ci saremo più?». Ma la questione importante su cui mi è capitato di proporre riflessioni è: cosa si può fare prima che arrivi il momento in cui noi non ci saremo più? E’ anche su questo che si può provare a giocare la partita.
Il futuro, per quanto tanto temuto e rappresentato come complesso e problematico, è appunto futuro, da realizzare.
Il presente permette di poter lavorare per rendere quel futuro più tollerabile alla persona con disabilità e a coloro che lo aiuteranno in assenza dei genitori. Il termine attraverso il quale vedere la questione cambia.
Le stesse associazioni, come ANFFAS, che più storicamente si occupano di disabilità, utilizzano una espressione che mi trova d’accordo e che racchiude il senso di quanto detto in questo breve articolo:
” DURANTE DI NOI: cosa si può fare mentre sei con noi “.